La solitudine dei capitani d’azienda

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Nelle aziende, coloro che sono al comando sono le persone che più di tutte vivono una continua solitudine legata al ruolo. Me ne accorgo ogni giorno di più, in occasione di incontri di lavoro, quando a tu per tu i capitani di aziende mi raccontano, come un fiume in piena, la loro esperienza.

I capitani di aziende, che mi capita di incontrare per lavoro, molto spesso si soffermano a raccontarmi che a loro viene chiesto di vestire ogni giorno gli abiti della persona motivata: decisionista ma allo stesso tempo ispiratrice, sicura di sé e visionaria al punto da rassicurare tutti sulla concretezza del loro posto di lavoro e sul valore del loro progetto professionale. Molto spesso la loro leadership è tale da gestire questa richiesta con tranquillità ed entusiasmo, ma ci sono dei momenti in cui le preoccupazioni sono molte, le banche che chiedono più garanzie, il mercato in flessione, gli aspetti organizzativi da risolvere, i clienti pressanti…

E guai in questi momenti a dimostrare stanchezza e preoccupazione potrebbe scattare, tra le risorse umane, l’idea che forse è meglio trovarsi un nuovo posto di lavoro e scappare…. Inoltre chi è convinto che circondarsi da personalità differenti sia un valore di cui l’azienda non può fare a meno, avverte anche la necessità di rapportarsi in modo differente con le risorse umane: riuscire ad essere sfidante con chi cerca competizione; rassicurante con chi ricerca tranquillità, coinvolgente con chi vive nel team la sua realizzazione.

E se le cose non vanno per il verso giusto, se la stanchezza assale o se lo stress è troppo alto, se i cambiamenti del mercato del lavoro sono stati così repentini da richiedere un nuovo assetto organizzativo e quindi regna una fase di confusione, se l’empatia con la risorsa non si trova? Con chi può confidarsi il nostro apicale?

A rendere questa sensazione di solitudine ancor più pesante c’è alcune volte la consapevolezza dei rumors aziendali, del lamento, del chiacchiericcio di chi durante la pausa caffè, nei corridoi, utilizzando sistemi di messaggistica interni, mugugna su chi comanda, sulla organizzazione confusa, sul “modello di leadership”, come se questo diffuso malessere non arrivasse alle orecchie attente del capo.

Quante volte sento affermazioni del tipo: è troppo intransigente, era meglio il padre, l’organizzazione non funziona, fossi io al suo posto farei meglio… Quando ciò accade avverto lo stesso senso di disagio di quando di fronte ai cancelli della scuola dei miei figli, alcune mamme dei bambini (spesso senza alcuna  esperienza) mi dicevano: “Non condivido il metodo didattico della maestra, indiciamo una riunione”. In mente mia mi chiedevo: “ma cosa dobbiamo dire in questa riunione? Perché non la facciamo lavorare questa “povera crista” e proviamo a supportarla invece di darle contro…già primi giorni di scuola”

Per anni ho pensato che un capo potesse essere “amico delle proprie risorse” cosi’ come anche per tanto tempo si è discusso sui genitori “amici” dei propri figli.

Niente… secondo me non vale in nessuno dei due casi.. chi è capo deve esercitare questo ruolo assumendo delle decisioni a volte impopolari, cercando di restare sempre un super-eroe nell’immaginario comune, costruendo relazioni profonde di stima e di rispetto che prescindono dalla ricerca della quotidiana complicità.

Ed è proprio nella quotidianità che a volte, scatta la solitudine di cui parlavo prima. L’impossibilità di essere sempre se stessi per vestire ogni giorno gli abiti di un condottiero senza paura.

Napoleone quando era stanco della guerra e stava per tornare, diceva a Giuseppina “Non lavarti, arrivo”, tutti hanno sempre raccontato questo episodio come un desiderio sessuale, io ho sempre pensato che Napoleone, stanco di dover essere sempre un condottiero senza paura, voleva sentire ogni tanto l’afrore dell’umanità.

Pina Basti

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